Ecco l’accaduto: un uomo uccide un altro uomo in pieno giorno a mani nude, in una città italiana. La scena viene vista e filmata dai passanti.Ciò che ha compiuto l’aggressore è un atto folle, ma ora il dibattito sui media è incentrato sulla reazione, apparentemente indifferente, dei passanti: assistere alla scena e riprenderla invece che intervenire.
Si può restare a guardare la violenza? Cosa si frappone fra gli occhi dello spettatore e la scena violenta? È pura indifferenza?
Siamo veramente così assuefatti alla malvagità? Sembrano chiedersi tutti.
Senza buttarci ancora nella ricerca delle responsabilità personali, analizziamo la scena per quella che è: un uomo assale con una brutalità fuori logica un altro uomo davanti agli occhi di tutti.
In pieno giorno.
Quali sono i meccanismi che entrano in gioco negli altri? Negli osservatori? Nei passanti?
Di fronte all’orrore del senza senso, dell'impossibile, entrano in gioco risposte soggettive.
Qualcuno avrà chiamato i soccorsi, qualcuno avrà ripreso la scena. Qualcuno sarà rimasto fermo a guardare. Nessuno è intervenuto. Nessun atto eroico ha salvato la situazione e/o la dignità di questa società che si ritiene civile.
La civiltà, diceva Freud, è il luogo della sublimazione delle pulsioni e questo deve avvenire per la sopravvivenza in primis, ovvero per portare a tutti un poco di sicurezza condivisa e, in ultima battuta, una quota di felicità. La civiltà dovrebbe liberare, quindi, dalle paure.
La brutalità del male, però, e le atrocità emergono come atti aggressivi e violenti, folli.
La paura regna, troppe volte si avverte in questi anni! La paura è un meccanismo automatico che mette in allerta l’uomo e porta in gioco dei meccanismi di difesa.
C'è da chiedersi, dunque:
che funzione ha porre l’orrore agito dietro ad uno schermo?
Che tipo di filtro ha impedito di intervenire al passante?
Lo psicoanalista P. Naveau in Lacan Quotidien n. 825 scrive: “È con terrore che ogni giorno apprendiamo cosa succede nel mondo.
Non si può che essere colpiti, infatti, da ciò che, ai quattro angoli del pianeta, si ripete. Che cosa apprendiamo? Che l’odio è lì che aspetta. Intenso, duro, così reale come la roccia neozelandese della Tutukaka Cost. E ingoiarlo senza batter ciglio sarà, quindi, il nostro pane quotidiano. Perché niente aiuta”.
Viene da suggerire una rilettura dello “schermo” come filtro. Basta tornare al valore della parola, alla sua etimologia, con schermo (dal germanico skirm ovvero riparo, scudo, protezione) anticamente si chiamava tutto ciò che serviva a proteggere e a nascondere... Anche in questa occasione la videocamera può essere letta come un filtro, uno scudo dinanzi all’orrore della scena senza senso che buca la visuale.
L’orrore della morte e dell’odio senza veli che sperimentato in questi anni di assuefazione ad un certo tipo di televisione e di ostentazione dell’immagine legata all’ informazione.
Sono stati visti fino all’altroieri corpi lacerati di uomini, donne e bambini lasciati per strada e ripresi. Rimandati nelle proprie case dai media. E anche in quell'occasione le medesime scene colpivano e attivavano con maggiore intensità all'inizio rispetto a quelle stesse riportate solamente qualche giorno dopo.
Tante e tante volte, nella narrazione dei fatti di cronaca, oggi, ci si affida ad immagini forti, senza filtri, accompagnate dalla frase: "per dovere di cronaca”.
Quale responsabilità quindi invece hanno i media? Quale responsabilità ha chi punta il dito e mostra, ancora una volta senza filtri l’orrore a cui l’uomo sembra essersi assuefatto?
È un dilemma che attanaglia: da una parte un vedere per agire, per “indignarsi”, dall’altra un vedere per poi coprire gli occhi e girare lo sguardo altrove pur di “sopravvivere”.
Si può restare a guardare la violenza? Cosa si frappone fra gli occhi dello spettatore e la scena violenta? È pura indifferenza?
Siamo veramente così assuefatti alla malvagità? Sembrano chiedersi tutti.
Senza buttarci ancora nella ricerca delle responsabilità personali, analizziamo la scena per quella che è: un uomo assale con una brutalità fuori logica un altro uomo davanti agli occhi di tutti.
In pieno giorno.
Quali sono i meccanismi che entrano in gioco negli altri? Negli osservatori? Nei passanti?
Di fronte all’orrore del senza senso, dell'impossibile, entrano in gioco risposte soggettive.
Qualcuno avrà chiamato i soccorsi, qualcuno avrà ripreso la scena. Qualcuno sarà rimasto fermo a guardare. Nessuno è intervenuto. Nessun atto eroico ha salvato la situazione e/o la dignità di questa società che si ritiene civile.
La civiltà, diceva Freud, è il luogo della sublimazione delle pulsioni e questo deve avvenire per la sopravvivenza in primis, ovvero per portare a tutti un poco di sicurezza condivisa e, in ultima battuta, una quota di felicità. La civiltà dovrebbe liberare, quindi, dalle paure.
La brutalità del male, però, e le atrocità emergono come atti aggressivi e violenti, folli.
La paura regna, troppe volte si avverte in questi anni! La paura è un meccanismo automatico che mette in allerta l’uomo e porta in gioco dei meccanismi di difesa.
C'è da chiedersi, dunque:
che funzione ha porre l’orrore agito dietro ad uno schermo?
Che tipo di filtro ha impedito di intervenire al passante?
Lo psicoanalista P. Naveau in Lacan Quotidien n. 825 scrive: “È con terrore che ogni giorno apprendiamo cosa succede nel mondo.
Non si può che essere colpiti, infatti, da ciò che, ai quattro angoli del pianeta, si ripete. Che cosa apprendiamo? Che l’odio è lì che aspetta. Intenso, duro, così reale come la roccia neozelandese della Tutukaka Cost. E ingoiarlo senza batter ciglio sarà, quindi, il nostro pane quotidiano. Perché niente aiuta”.
Viene da suggerire una rilettura dello “schermo” come filtro. Basta tornare al valore della parola, alla sua etimologia, con schermo (dal germanico skirm ovvero riparo, scudo, protezione) anticamente si chiamava tutto ciò che serviva a proteggere e a nascondere... Anche in questa occasione la videocamera può essere letta come un filtro, uno scudo dinanzi all’orrore della scena senza senso che buca la visuale.
L’orrore della morte e dell’odio senza veli che sperimentato in questi anni di assuefazione ad un certo tipo di televisione e di ostentazione dell’immagine legata all’ informazione.
Sono stati visti fino all’altroieri corpi lacerati di uomini, donne e bambini lasciati per strada e ripresi. Rimandati nelle proprie case dai media. E anche in quell'occasione le medesime scene colpivano e attivavano con maggiore intensità all'inizio rispetto a quelle stesse riportate solamente qualche giorno dopo.
Tante e tante volte, nella narrazione dei fatti di cronaca, oggi, ci si affida ad immagini forti, senza filtri, accompagnate dalla frase: "per dovere di cronaca”.
Quale responsabilità quindi invece hanno i media? Quale responsabilità ha chi punta il dito e mostra, ancora una volta senza filtri l’orrore a cui l’uomo sembra essersi assuefatto?
È un dilemma che attanaglia: da una parte un vedere per agire, per “indignarsi”, dall’altra un vedere per poi coprire gli occhi e girare lo sguardo altrove pur di “sopravvivere”.
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